La
caratteristica del modello italiano di tassazione non è l’elevata pressione
fiscale complessiva, ma la coesistenza di tale elevata pressione fiscale con
un’elevata tassazione sui produttori di ricchezza (imprese
e partita IVA) … Tale modello di tassazione ha inflitto al nostro Paese prima
il rallentamento, poi il ristagno e infine il declino cui oggi assistiamo …
L’interruzione della crescita comporta alcune conseguenze come il peggioramento
del tenore di vita, mancanza di occasioni di lavoro per i giovani,
l’indebolimento dello stato sociale … Il punto non è abbassare la pressione
fiscale complessiva, perché il livello di quest’ultima dipende solo da quanto
Stato sociale desideriamo e quanta inefficienza siamo disposti a tollerare. Il
punto è che non possiamo permetterci la stagnazione dell’economia. E per
liberarci da essa dobbiamo tornare a crescere, riducendo (di
almeno 15 punti) le aliquote sui produttori. È vero, che esistono anche Paesi che
crescono nonostante le alte tasse, ma nessuno di essi è riuscito a farlo senza
tenere bassa, molto bassa, la pressione fiscale sui produttori di ricchezza …
Fino alla fine degli anni ’80 l’aumento della pressione fiscale non produce
ancora effetti drammatici sul tasso di crescita, perché ogni volta che il
governo assesta uno dei suoi micidiali colpi ai contribuenti i suoi effetti
sono attenuati dal meccanismo della svalutazione della lira, che permette alle
imprese esportatrici di recuperare sul versante dei costi. Solo quando tale
meccanismo (svalutazioni competitive) si
spezza, ossia tra il 1992 (crollo della lira, manovra di 90 mila
miliardi del governo Amato) e il 1995 (ultima
svalutazione) che l’Italia entra in crisi … All'origine di questo
rallentamento, che alla fine diventerà un vero e proprio declino, vi sono
certamente anche le riforme mancate, soprattutto in tema di liberalizzazioni,
mercato del lavoro, giustizia civile, burocrazia … Le imprese del Centro-Nord,
che costituiscono la spina dorsale dell’apparato produttivo del Paese per
diversi decenni sono state la locomotiva della crescita, si trovano sulle
spalle una pressione fiscale che non riescono a reggere per due motivi: primo,
per entrare nell'euro, l’Italia rinuncia alle svalutazioni competitive;
secondo, perché l’economia del Centro-Nord è in gran parte regolare (o
emersa) e non può quindi ricorrere all'evasione fiscale per parare il
colpo dell’aumento di tasse … Dopo il 1993 sia il Nord che il Sud hanno
rallentato la propria crescita, ma il Nord in modo drammatico, perché il tasso
di crescita è crollato … Oggi ci sono imprese che, se le imposte societarie
fossero quelle dei Paesi scandinavi, potrebbero tranquillamente continuare a
operare, mentre con le nostre aliquote sono costrette a chiudere. Dunque la
promessa fondamentale del federalismo fiscale (per
correggere i due squilibri territoriali fondamentali del nostro Paese: un
eccesso di pressione fiscale al Nord, un eccesso di spesa pubblica corrente nel
Sud),
che potrebbe ridare slancio alla crescita (con meno spesa
pubblica, meno sprechi, meno evasione fiscale nel Mezzogiorno), è più che mai attuale … ma i tempi di
attuazione sembrano lunghissimi … Se il federalismo non può essere la medicina,
senz'altro l’inseguire il pareggio di bilancio senza promuovere la crescita,
costringe il Paese a sacrifici sempre più grandi, ma sempre meno efficaci … In
altre parole, il timore è l’avvitamento dell’economia italiana su se stessa.
Per azzerare il deficit il governo vara sempre nuove tasse che provocano solo
una recessione … Nessuna manovra potrà mai consentirci di tornare a crescere,
se non prevede che una parte significativa delle risorse recuperate vada a
sostenere quanti cercano ancora di stare sul mercato e di produrre ricchezza.
(Luca
Ricolfi --- La Repubblica delle tasse ---)
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